Gennaio 2009

 

Enzo Varricchio

(diritti riservati)

 

DOSSIER ECONOMIA della CULTURA  2009

 

 

Creatività  e produzione culturale per la ripresa economica

 

Capitale intellettuale e innovazione tecnologica,  forze propulsive dell’ipercapitalismo postindustriale

 

***

 

1) L'economia della cultura e il fattore creativo per le imprese

2) Il contributo quantificabile della cultura e della creatività  all'economia europea

3) Beni e mali culturali: la ricerca di una giusta formula tra pubblico e privato:

a) governance e incentivi per il patrimonio materiale;

b) creatività  e innovazione.

 

1) L’economia della Cultura ed il fattore creativo per le imprese

Il 2009 sarà l’anno europeo della creatività e dell’innovazione.

La Confindustria, dopo aver creato nel 2006 Sistema Cultura Italia, la federazione italiana dell’industria culturale, ha annunciato, per voce del suo nuovo presidente della Commissione Cultura, Alessandro Laterza, che celebrerà il proprio centenario nel 2010 con un simposio dedicato alla sfida culturale per le imprese.

La seconda edizione di Art For Business Forum a Milano, si è occupata del tema del valore dell’arte nello sviluppo dell’impresa.

Impresa culturale e cultura d’impresa sono due argomenti di estrema attualità nel dibattito politico-economico.

La cultura stessa sembra diventata una branca dell’economia: l’Economia della Cultura, appunto.

Trattasi della disciplina che applica le leggi economiche ai fenomeni culturali, studiando le ricadute determinate dall’impiego delle risorse del settore, intese sia in termini beni materiali che di capitale creativo.

Il sistema della cultura può suddividersi in due grandi subsettori: i beni materiali e le attività immateriali.

Nei primi, rientrano i monumenti e gli oggetti di valore archeologico, storico-artistico, demoetnoantropologico, librario, numismatico, etc.

Le attività culturali, invece, comprendono, oltre alle iniziative finalizzate alla valorizzazione del patrimonio materiale, le produzioni intellettuali ed artistiche contemporanee, ivi compresi gli intangibles aziendali, quali know-how, marchi, brevetti e diritti d’autore.  

Sia il patrimonio culturale materiale che quello immateriale acquisiscono sempre più importanza nelle moderne economie.

L’effetto Bilbao si è fatto sentire ed è stato imitato da altre città come Valencia, Glasgow, Birmingham, Rotterdam, Lille, Abu Dhabi, nelle quali il cantiere cultura è sempre aperto. Una buona atmosfera culturale attrae gli investimenti produttivi, mentre gli investimenti in cultura sortiscono effetti moltiplicativi della ricchezza in altri settori.

Il bene culturale non viene più visto esclusivamente come costo (per la sua conservazione, manutenzione, gestione etc.), bensì come risorsa per la collettività o, addirittura, come volano dello sviluppo, naturalmente a patto di essere adeguatamente valorizzato.

La creatività, da par suo, è considerata il fattore competitivo per eccellenza. Essa è definibile come l’impiego delle risorse culturali nel processo produttivo di settori non solo culturali, quindi come generatore di idee innovative al servizio dell’impresa.

A dire il vero, la convinzione che la cultura e l’economia siano intimamente legate e che la prima costituisca un potente volano economico non è affatto nuova. Anzi, è antichissima, se si pensa alla storia delle città d’arte; persino ovvia, se si riflette che la cultura è il fluido intellettuale in cui si muovono tutte le discipline, senza omettere che l’economia è una scienza umana, quindi fortemente influenzata dall’evoluzione delle dinamiche culturali.

Ciononostante, sia la concezione idealistica hegeliano/crociana, che il materialismo storico e dialettico, in una con il progressivo disimpegno degli intellettuali nella società, avevano un po’offuscato la cristallinità della interazione tra queste due branche dell’attività umana.

Fino alle soglie degli anni Ottanta, il mondo degli affari e del danaro non dialogava con il settore culturale che, da par suo, si stringeva in circoli chiusi per sfuggire alla omologazione dettata dai poteri forti.

La cultura era parsa un settore troppo volatile e mutevole per essere imbrigliato in dosaggi quantitativi e monetari, troppo anarchico per costituire reale materia di interesse per la politica e di investimento per le imprese, troppo oligopolistico per essere affidabile.

Le cose sono cambiate con l’avvento dell’economia della conoscenza e/o del Knowledge Management, per cui la cultura e la creatività, che del sapere sono strumenti elettivi, non potevano rimanere estranei agli interessi del mondo economico.

Un’economia dematerializzata, nel processo evolutivo della cosiddetta New Economy, ha incontrato una cultura contemporanea, a sua volta sempre meno materiale, fatta più di servizi che di beni corporali di tipo tradizionale.

Per descrivere questo cambiamento, si adottano i concetti di capitale cognitivo, fattore produttivo intellettuale, società cognitiva, economia della conoscenza, etc.

Jeremy Rifkin ha definito il capitale intellettuale “la forza propulsiva della nostra epoca”, la nuova cultura dell’ipercapitalismo postindustriale.

Fiorisce il cosiddetto marketing culturale e i manager entrano nei consigli d’amministrazione dei musei.

Il brand di un’azienda viene comunicato attraverso la realizzazione o il finanziamento di eventi culturali[1], oppure veicolando fondi verso restauri, mostre, esibizioni e concerti.

“L’impresa non è più solo il luogo della produzione, ma lo snodo di ascolto, elaborazione e trasformazione delle idee creative e dell’innovazione. Un’alleanza forte con l’arte e la cultura è ormai connaturata agli aspetti fondanti oggi dell’economia” (Michele Trimarchi).

Da par suo, anche la cultura si è rivolta al mercato e al mondo dell’impresa[2] per cercare risorse e finanziamenti, poiché la caduta del modello statale assistenzialista, l’esigenza di contenere il debito pubblico, le privatizzazioni, sono cause che hanno determinato un drastico tagli ai fondi pubblici per i beni e le attività culturali.

Nei diversi Paesi europei, il fund raising è diventato il settore strategico per eccellenza delle istituzioni culturali. Naturalmente, il reperimento dei fondi per le attività risulta squilibrato a vantaggio delle strutture più note e a sfavore delle realtà più piccole e meno organizzate burocraticamente.

Il mondo culturale ha assunto anche alcuni difetti di quello economico. Ad esempio, il mercato dell’arte contemporanea somiglia molto a quello della finanza dei derivati, una complessa alchimia allestita da pochi potentati, insuscettibile di previsioni e aliena da meritocrazie, in cui è possibile inserirsi solo attraverso una altrettanto complessa e scientifica rete organizzativa di tipo aziendale.

Ad ogni buon conto, l’economia e la cultura ora dialogano e si fondono in un sistema di pensiero affatto nuovo, che vede (almeno in teoria) nell’una il propellente dell’altra.

In senso critico, va detto che, ancora una volta, in una prospettiva materialistica, si cerca di giustificare l’esistenza della cultura per mezzo dell’apporto economico che essa genera, anziché quale creatrice di un patrimonio di valori comuni (prettamente immateriali), da individuarsi nella storia delle nazioni e da condividersi tra i popoli europei.

I due termini rappresentano, invero, una sorta di endiadi: “cultura è economia, quanto economia è cultura”, nel senso che una cultura evoluta genera buona economia, redditi e profitti, allo stesso modo in cui un’organizzazione economica razionale ed efficiente esprime un pensiero, una cultura vincente.

Sicché, urge trovare una composizione tra le diverse istanze, nel rapporto tra la dimensione materiale dei fenomeni economici e del territorio (con le sue bellezze culturali e naturali) e quella immateriale della cultura, dell’arte, della creatività in generale.

 

 

2) Il contributo quantificabile della cultura  e della creatività all’economia europea

L’idea della cultura quale fattore propulsivo dello sviluppo rischia di restare una mera ipostasi ovvero un puro slogan, se non suffragata da una misurazione quantitativa delle ricadute economico-sociali dei fenomeni culturali, ripartite in ciascuno dei settori in cui la cultura dispiega i suoi effetti, da utilizzarsi per orientare le politiche di governo e per invogliare potenziali investitori privati.

Sul contributo che la produzione e la circolazione delle idee offrono dal punto di vista  sociale, non occorre soffermarsi troppo. Sono arcinoti i benefici che la cultura apporta alla tutela dei diritti umani, ai processi identitari, all’integrazione ed alla solidarietà, all’educazione[3] ed alla formazione[4] dei cittadini, al rapporto con le fasce sociali più deboli. Anche i bilanci sociali delle imprese attestano di un rinnovato impegno delle aziende ad assumersi la responsabilità sociale  di sostenere le attività culturali in generale e in particolare dei luoghi ove operano[5].

Oggi si è in grado di stimare il contributo alla crescita che gli investimenti in cultura sono in grado di fornire sia all’impresa che al sistema economico in generale.

In Inghilterra, la Arts&Business, importante associazione del settore,  ha annunciato che sta sperimentando un sistema di misurazione del ritorno degli investimenti in cultura (ROI) e del Ritorno per Obiettivi (ROO)[6].

A livello UE, la Commissione Europea, tenuto conto degli obiettivi fissati nella cosiddetta Agenda di Lisbona 2000, ha compiuto uno sforzo pregevole per misurare l’impatto che il settore culturale esercita sulla politica, sulla società e soprattutto sull’economia, commissionando un apposito Studio  ad un pool di agenzie, capeggiato dalla Kea European Affairs di Bruxelles, intitolato The Economy of Culture in Europe 2006”.

Si è trattato del primo studio ufficiale europeo finalizzato a “dimostrare” statisticamente, quantificandolo, il contributo che il settore culturale e la componente creativa apportano allo sviluppo economico-sociale[7].

Ne è emerso che la cultura e la creatività rappresentano il vantaggio competitivo per eccellenza del Vecchio Continente rispetto alle economie di altre grandi aree.

I dati raccolti dallo Studio “L’economia della Cultura in Europa” evidenziano che il settore culturale e creativo:

·         ha fatturato complessivamente oltre 654 miliardi di euro nell’anno 2003;

·         ha contribuito per il 2,6% del P.I.L. della UE nell’anno 2003;

·         ha accresciuto il proprio valore aggiunto nel periodo 1999/20003 nella misura del 19,7%;

·         ha occupato quasi 5,8 milioni di persone nell’anno 2004, corrispondente al 3,1 della del totale della popolazione impiegata nella UE a 25 membri

·         ha contribuito in maniera significativa al turismo, settore che produce il 5,5 % del PIL della UE

 

Il settore culturale e creativo è un settore in forte crescita con un tasso di sviluppo più rapido rispetto al resto dell’economia, anche con riguardo ai livelli occupazionali, nei quali mostra la migliore performance rispetto a tutti gli altri settori economici, spingendo anche l’innovazione e le Information and Communication Technologies.

Lo studio illustra come la cultura possa guidare non solo lo sviluppo economico e sociale ma anche l’innovazione e la coesione.

L’idea guida della cultura motore dello sviluppo è stata ribadita e rafforzata anche negli ulteriori documenti dell’agenda politica dell’Unione Europea. Alcuni aspetti fondamentali dei rapporti tra economia e cultura, come emergono dalle ricerche compiute:

·         La cultura è stata, e sarà in futuro, uno dei settori di maggior crescita reddituale e occupazionale;

·         La cultura  è la fonte primaria della creatività;

·         La creatività porta innovazione;

·         la cultura non si delocalizza, il job off-shoring (la delocalizzazione di processi produttivi e di occupazione) è molto meno sviluppato rispetto ad altri settori economici;

·         E’ necessario distinguere tra i risultati economici prodotti dai beni culturali materiali e quelli prodotti  dalle attività culturali e creative perché sviluppano ricadute in ambiti diversi;

·         Il patrimonio culturale sia materiale (monumenti, musei, opere d’arte, etc.) che immateriale (feste, tradizioni, fiere, mostre, etc.) è un potente attrattore turistico-economico;

·         Il turismo è uno degli elementi trainanti dell’economia europea;

·         Le attività creative non producono risultati economici solo nei processi industriali in cui vengono coinvolte tradizionalmente (copyright, diritto d’autore, design, marchi e brevetti, licenze) ma, in generale, sono un fondamentale fattore produttivo in tutte le attività imprenditoriali;

·         Le idee creative sono i contenuti elettivi da veicolare attraverso le reti di comunicazione di massa;

·         Software, Video giochi, Home enterteinment, VOD, sono prodotti a contenuto culturale  e creativo, i cui risultati economici vanno inseriti nel settore culturale, in quanto la relativa attrattività è fortemente condizionata dal loro contenuto immateriale, fatto di idee.

 

Gli effetti positivi delle interazioni tra economia e cultura sono provati:

·         il marketing culturale (heritage marketing) è una disciplina in continua evoluzione[8], sempre più spesso adottato da parte delle imprese che intendono connotare e valorizzare il loro brand, poiché l’investimento in cultura fa crescere la competitività[9];

·         in un’epoca in cui i contenuti pubblicitari passano attraverso le reti informatiche, per raggiungere un numero eccezionale di utenti in brevissimo tempo, è necessario un approccio culturalmente maturo ed efficace[10], capace di selezionare ed indicizzare grandi quantità di dati da comunicare;

·         le aziende che operano nel settore culturale e multimediale tendono a consociarsi per fare sistema;

·         l’importanza degli asset intangibili, in cui giocano un ruolo fondamentale le proprietà intellettuali (Intellectual Property Rights – IPR), è destinata ad aumentare nella strategia delle aziende[11];

·         l’arte e l’innovazione vengono collegate nella formazione[12] e nelle strategie manageriali[13];

·         il connubio tra beni culturali e I.C.T.[14] si è dimostrato vincente[15];

·         il turismo culturale costituisce un segmento fondamentale della domanda turistica;

·         i prezzi degli immobili di diverse città europee, collocati in aree ad elevata “densità artistico-museale”, hanno beneficiato di rivalutazioni a doppia cifra, così come zone degradate e periferiche hanno riconquistato vivibilità grazie ad insediamenti museali[16];

 

Va detto che dagli studi si percepisce la mancanza per l’Italia di dati univoci, articolati e continuativi.

I risultati dello Studio L’economia della cultura in Europa sono serviti in seguito alla stessa Commissione per aggiustare il tiro ed auspicare la creazione di un Agenda europea per la Cultura, con l’obiettivo di  alimentare la diversità e il dialogo interculturale, eleggere la cultura a catalizzatore della creatività, nel quadro della strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione, nonché quale elemento essenziale delle relazioni internazionali.

A tale obiettivo si indirizzano le linee programmatiche degli interventi di finanziamento europeo al settore culturale nel periodo 2007-2013 (vedi schema riepilogativo), anche se la dotazione complessiva per Paese all’anno è scesa da 2,5 milioni di Euro a 2 milioni di Euro (dotazione complessiva Euro 400 milioni in sette anni per un’Europa  a 27 membri), il tutto per una magra percentuale dello 0,04% annuo del bilancio comunitario (dati Rapporto Federculture 2008).

Dall’Europa dell’unione economica si cerca in tal modo di transitare verso l’Europa dell’unione e/o dell’integrazione culturale, sulla falsariga di indicazioni che provengono da tempo dalla comunità internazionale[17].

Forse il cammino avrebbe dovuto essere inverso…

 

 

3) Beni (e mali) culturali italiani: la ricerca di una giusta formula tra pubblico e privato.

a) Governance ed incentivi per il patrimonio materiale.

L’Italia è un grande museo en plein air…

Vanta qualcosa come 7282 chiese  e abbazie, 4109 palazzi e residenze, 2054 castelli e fortificazioni, 1034 monumenti dell’antichità, 491 giardini storici, 3232 musei e altri 5559 siti di alta rilevanza culturale, nonché il maggior numero dei siti protetti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (U.N.E.S.C.O.).

L’Italia è la patria internazionale dell’arte e vanta un numero enorme di artisti e di appassionati estimatori.

Soprattutto, il nostro Paese dispone di uno straordinario sistema eco-estetico, frutto di un plurimillenario e mirabile sincretismo tra bellezze naturali e culturali, uno sterminato “museo diffuso” che abbiamo ereditato dalla nostra storia e che talora è stato erroneamente sentito più come un vincolo che come una opportunità.

Invece, il nostro patrimonio intellettuale e culturale rappresenta il fattore strategico per uscire da qualunque crisi. La cultura non si delocalizza, rectius è meno suscettibile di delocalizzazione, salvo fughe di cervelli. La manifattura italiana è tra le migliori al mondo e la classe creativa italiana la più stimata.

Va detto che il settore sta vivendo un’autentica rivoluzione copernicana dal punto di vista organizzativo, gestionale e normativo, in un processo più generale di rivalutazione del “patrimonio culturale” italiano, di cui finalmente si cerca di tracciare una mappatura completa.

Negli ultimi decenni, il mondo politico-economico italiano, si è accorto che “il patrimonio storico e artistico nazionale rappresenta il grande giacimento petrolifero del Paese[18], cioè un potente strumento di benessere, per cui si è verificato un radicale cambiamento di prospettiva rispetto ad un passato in cui i beni e le attività culturali si consideravano non produttivi di ricchezza materiale, anzi destinati ad assorbire risorse pubbliche o private per essere mantenuti, tutelati, valorizzati.

I dati di un recente rapporto redatto dall’Università di Torino[19], evidenziano che:

·         Investire in cultura conviene. La spesa culturale presenta specificità in grado di accrescere il valore del territorio, al punto che per ogni euro investito, l’economia locale ne guadagna oltre cinque.

·         La cultura è fra le poche attività umane in grado di attirare visitatori/consumatori anche dall’esterno: l’esistenza di un’adeguata offerta culturale rimane un potente attrattore, che spesso guida anche la scelta delle destinazioni, unitamente alle bellezze paesaggistiche.

·         La cultura è un motore che genera sviluppo anche in altri settori anche non legati ad essa in modo diretto, quali attività tipografiche, di comunicazione, di marketing.

·         La spesa culturale accresce il valore territoriale. Le zone qualificate da interventi di restauro del patrimonio architettonico o di implementazione delle attività culturali[20]hanno visto rivalutarsi il valore degli immobili.

·         E’ possibile utilizzare il concetto di Prodotto Culturale Allargato (P.C.A.) per rappresentare i flussi di fatturato e di redditi che le attività culturali sono in grado di sviluppare[21].

·         La spesa culturale produce ricadute positive protratte nel tempo[22].

 

In realtà, va detto che la trasformazione  dei beni culturali da costo a risorsa non è affatto automatica, per una serie di ragioni.

·         la tendenza del bene culturale a rappresentare un fine di per sé piuttosto che un mezzo per lo sviluppo economico;

·         la tendenza alla contrazione delle risorse pubbliche destinate al settore culturale con inevitabile penalizzazione degli investimenti produttivi e professionali (vedi postea);

·         la difficoltà a stabilire rapporti chiari e criteri di governance efficaci  tra pubblico e privato.

 

Altre difficoltà riguardano l’area dei servizi turistici:

·         la peculiare natura di bisogno voluttuario del viaggiare e la sua conseguente soggezione agli effetti negativi di periodi di crisi economica;

·         la imprevedibilità dei flussi turistici, soggetti a mode e tendenze ondivaghe, oltre che sensibili ai frequenti mutamenti degli scenari geopolitici;

·         la forte volatilità e volubilità degli interessi culturali dei turisti;

·         la tendenza di detti flussi a privilegiare le mete classiche.

 

 

In questo scenario, tendono ad emergere le iniziative che, pur superando le barriere nazionali, riescono a conservare un legame con le particolarità locali, secondo una terminologia che fonde il globale e il locale in “glocale”. Distretti, cluster, programmi di cooperazione culturale, etc.

Nonostante alcuni dati incoraggianti, l’apporto della cultura al P.I.L. italiano è ancora abbastanza ridotto rispetto alle reali potenzialità, a causa di alcuni nodi gordiani che si ha difficoltà a sciogliere.

Uno di questi riguarda lo sterminato patrimonio materiale fatto di monumenti e beni mobili, per i quali passare dalla tutela alla valorizzazione è un cambiamento tutto in fieri, i cui esiti non sono affatto scontati.

La chiave di volta risiede nella giusta disciplina dei rapporti tra pubblico e privato.

Il settore pubblico governa la maggior parte dei beni culturali, cioè del patrimonio materiale, e finanzia la maggior parte delle attività culturali, cioè di quanto costituirà in avvenire il patrimonio immateriale.

Lo stesso settore pubblico è caratterizzato da una serie di livelli territoriali e funzionali  di coinvolgimento nei processi decisionali.

I gestori pubblici dei beni e dei servizi culturali sentono il bisogno, a causa soprattutto dei cospicui tagli alla spesa, di riposizionarsi intellettualmente, aprendosi al mercato e al management, per cogliere nuove possibilità di finanziamento che, invero, sussistendo gli attuali vincoli, non sono in effettive condizioni di captare.

Da par loro, gli imprenditori privati vorrebbero avvicinarsi sempre più alla gestione dei beni e delle attività culturali, ma solo a patto di scrollarsi di dosso le tradizionali rigidità degli apparati burocratici, riducendo il peso decisionale di questi ultimi.

Sicché, i musei, le gallerie d’arte, le biblioteche, persino le soprintendenze e i centri storici, vanno trasformandosi in vere e proprie aziende pubblico-private, e gli stessi artisti sono indotti a far da manager di se stessi, in un’atmosfera di quasi-mercato.

In effetti, si fa un gran parlare, tanto di distretti quanto di aziende turistico-culturali, ma, nonostante tale tendenza, i risultati tardano ad arrivare perché “le città e le regioni d’Italia, che si sono lanciate tutte in disordinati programmi di marketing territoriale, non sono riuscite a sviluppare una convincente e coerente linea di sviluppo capace di collegare il patrimonio artistico alla nuova sfida dell’economia della conoscenza e dei saperi [23].

Il “new deal della bellezza”[24] per rilanciare il turismo si fa attendere e, addirittura, negli ultimi anni l’appeal italiano per i grandi flussi turistici è diminuito.

In realtà, ogni possibilità di sviluppo del settore è stata pesantemente frenata da una serie di leggi finanziarie che hanno progressivamente consunto l’apporto economico pubblico ai beni e ai servizi culturali.

Dopo la crisi delle borse, sembra utopistico sperare che l’obbiettivo di raggiungere l’1% della spesa pubblica in cultura (dallo 0,26% attuale), fissato dal Documento di Programmazione Economica e Finanziaria 2008-2011, sia raggiungibile.

Con una politica economica così esangue, diventa impossibile che le soprintendenze continuino contemporaneamente a individuare e catalogare, conservare, gestire e valorizzare il patrimonio storico artistico della nazione.

Sarebbe giusto che pubblico e privato imparassero a convivere, lasciandosi vicendevolmente maggiori spazi di autonomia.

Un settore pubblico forte è la garanzia della tutela degli interessi della collettività ma, se la sua sfera di azione rimane così estesa, la sua funzione si indebolisce pericolosamente in periodi di carenza di fondi.

Se lo Stato e gli Enti territoriali non sono in grado di valorizzare e rendere produttivi i beni culturali, pare opportuno che gli sia demandata solo la gestione dei siti più importanti, con affidamento dei rimanenti in concessione a società private, a condizioni favorevoli.

Nel tentativo di affrontare i nuovi problemi derivanti dall’economia della cultura il legislatore italiano ha attuato una profonda riforma della struttura ministeriale [25]e della normativa.

Ad esempio, il Codice dei beni culturali e del Paesaggio (D.lgs. n. 42/2004 e succ. mod.), giunto già al terzo restyling con la Riforma Rutelli, prevede una serie di forme gestionali miste, il cui limite risiede tuttavia nell’eccessiva ingerenza pubblica nelle attività affidate al management privato.

Il legislatore è intervenuto di recente stabilendo una nuova disciplina dei servizi aggiuntivi dei musei statali (DM. 29/01/2008), nell’intento di favorire l’evoluzione dell’idea di museo-impresa.

Tuttavia, gli imprenditori non sono parsi sinora particolarmente interessati a modelli di cogestione, considerando l’ente pubblico come un socio scomodo, perché eccessivamente legato alle lentezze burocratiche e alle ingerenze politiche. Anzi, col passare del tempo, dopo una iniziale sensibilità verso questo settore di investimento, hanno cominciato a ritirarsi, forse in attesa di una normativa più liberale, un apparato burocratico meno invasivo e una fiscalità più vantaggiosa.

“Non è giusto che stia vincendo una concezione tutta proprietaria dei beni culturali, sia essa coltivata da mecenati e collezionisti privati o da sacerdotali funzionari pubblici”[26].

Sussistono resistenze ideologiche alla privatizzazione, da parte di coloro che paventano una progressiva sdemanializzazione e commercializzazione dei beni culturali, con conseguenze irredimili sotto il profilo della conservazione e tutela.

Nella ricerca del giusto equilibrio tra pubblico e privato, un ruolo cruciale svolgono i rapporti tra governo e gestione: “la regola essenziale consiste nel fatto che esternalizzabile è la gestione e non anche il governo, non anche la responsabilità delle istituzioni nei confronti del pubblico interesse a garanzia del quale non sembra possibile spingersi più oltre fin quando non saranno stati fissati d’intesa fra lo Stato, le Regioni e le Autonomie i livelli di qualità della valorizzazione richiesti dall’art. 114 del Codice dei beni culturali”[27].

Al di là di ogni polemica ideologico-politica, due cose sono certe: non vi sono risorse a sufficienza per garantire una gestione pubblica dei beni culturali adeguata agli standard europei; inoltre, rimane sottoutilizzato l’apporto del capitale privato alle attività culturali.

Eppure, esiste un numero crescente di imprenditori desiderosi di esibire un’immagine positiva delle proprie attività produttive o commerciali, partecipando alla sponsorizzazione di manifestazioni artistiche ovvero ad operazioni di restauro di monumenti[28].

La cultura fa bene alla competitività: è ormai provato, e persino misurabile, che l’investimento culturale, con le sue ricadute pubblicitarie, potenzia le capacità imprenditoriali ed esalta le spinte etiche delle risorse umane, generando benefiche ricadute, non solo d’immagine ma anche di fatturato.

Sicché, va ricercato un giusto contemperamento tra le esigenze inalienabili di pubblicità del patrimonio culturale e  le istanze di liberalizzazione e di autonomia di cui è portatore il ceto imprenditoriale.

Alcune regioni italiane hanno scelto la “programmazione negoziata” un significativo strumento, volto alla concreta realizzazione di progetti d’intervento, complessi e particolarmente rilevanti sotto il profilo economico, che coinvolgono, pur con competenze e ruoli diversi, non solo le Amministrazioni Pubbliche, ma anche i privati attraverso gli accordi di programma. Come è stato più volte sottolineato nel corso di questi anni[29], “la programmazione negoziata” risponde ai principi di sussidiarietà e di cooperazione tra distinti enti che interagiscono sul territorio, nello sviluppo concreto di progetti di significativo impegno.

Sul fronte tributario, è entrata in gioco una politica di incentivazione fiscale per gli enti che svolgono o che finanziano attività culturali[30], un primo passo verso la stimolazione del quel mecenatismo privato che tanti risultati positivi ha conseguito nei paesi di Common Law[31].

La normativa fiscale dovrebbe consentire la deducibilità o detraibilità  dalle dichiarazioni dei redditi delle persone fisiche delle spese sostenute e documentate per l’acquisto di beni e servizi culturali[32].

Un simile strumento normativo renderebbe più appetibile fornire contribuzioni e sponsorizzazioni alle iniziative culturali e aumenterebbe gli investimenti in opere d’arte.

Un censimento completo delle proprietà storico-archeologico-artistico-museali  consentirebbe di intervenire con strumenti incisivi su quelle realtà abbandonate o sottoimpiegate, che oseremmo definire “il patrimonio culturale fantasma italiano”, varando misure eccezionali per favorire l’apporto di capitale privato e riacquisire valore.

Ciò che preoccupa è che i mali della cultura italiana siano ben noti a tutti sin dal 1967, anno in cui fu pubblicata la Relazione della Commissione Parlamentare presieduta dall’On.le Francesco Franceschini, dal significativo titolo Per la salvezza  dei beni culturali in Italia, che costituisce un caposaldo della materia[33].

Tutto ciò e molto d’altro era e resta il nodo problematico da sciogliere a distanza di oltre quarant’anni.

b) Creatività e innovazione

La citata Agenda europea per la cultura del 2007 ha sintetizzato nella ormai famosa “relazione 3C” (Cultura-Creatività-Competitività) i tre elementi che dovrebbero consentire all’economia europea di riemergere dalla crisi.

La “classe creativa”, teorizzata dalla scuola di Richard Florida e Yochai Benkler, è l’elite di eccellenze in grado di inventare nuove idee, nuove tecnologie, nuovi prodotti, arricchendo il patrimonio immateriale delle aziende.

Nonostante la sua importanza, la creatività è la risorsa meno tutelata, soprattutto in Italia, Paese maggiormente dotato di talenti creativi ma in cui la “sindrome di Meucci”, è da sempre diffusa.

In Italia, l’attività creativa non è mai stata considerata in modo esplicito un’attività industriale. Tant’è che non esiste una nozione di “industria culturale” come quella britannica o di “industria culturale” come quella francese.

Mentre nel Regno Unito, sin dagli anni Novanta, le industrie creative sono al centro dell’agenda politica, mentre la Germania ha investito quest’anno due miliardi di euro in una competizione fra atenei, deve preoccupare la “fuga” di ben 6.000 cervelli italiani all’anno ma soprattutto l’inadeguata selezione meritocratica.

“Antonio Meucci è il geniale ideatore del telefono che non riuscì a trarre alcun beneficio dalla sua invenzione. A più di un secolo di distanza, si può dire che la sindrome di Meucci abbia colpito l'Italia intera. Mentre tutto il mondo scopre l'importanza della qualità di vita e della dimensione estetica, mentre i grigi computer si trasformano in oggetti di design, mentre perfino gli inglesi imparano a mangiar bene, da noi si parla di declino irreversibile. Nel nuovo capitalismo culturale, sostiene l'autore, gli italiani dovrebbero muoversi con la sicurezza di tanti piccoli Scarface, anziché arrovellarsi in una crisi che è prima di tutto psicologica e culturale” (da G. Da Empoli, La sindrome di Meucci. Contro il declino italiano, 2006).

Gli artisti sono i soggetti più dotati di creatività. Le esperienze del movimento delle Arts and Crafts di William Morris, dello stesso Liberty e del Bauhaus di Walter Gropius, hanno insegnato che la creatività degli artisti e degli artigiani, ad esempio, è in grado di fornire imput produttivi ad industrie come la moda, il design, la radiotelevisione, la grafica pubblicitaria, i videogiochi.

Nel Paese di Dante e Leonardo gli artisti sono scissi, separati dalla società e lontani anni luce dalla realtà delle imprese, che dal canto loro sono portate ad investire in fattori tradizionali piuttosto che in idee innovative. Difettano laboratori in cui imprese ed operatori culturali siano in grado di confrontarsi per studiare soluzioni innovative, assistiti dalle nuove tecnologie.  

Non mancano eccezioni a tale stato delle cose. Nel Nord-Est, l’associazione Fuoribiennale ha realizzato la prima mappa delle risorse intellettuali del Veneto (Corriere del Veneto, maggio 2007), nel tentativo di creare un parco dell’innovazione denominato Innovation Valley, in cui mondo della cultura e mondo delle imprese potranno ritrovarsi e cooperare dando vita ad un network.


 

[1] Vedi articolo, Aziende nei musei, in Italia Oggi del 4/10/2006, pag. 21: “Da Boccioni a Tamara de Lempicka il marketing culturale piace alle aziende. E’ il caso di Alfa Romeo e Takeda Italia Farmaceutici”, che hanno finanziato due mostre dedicate rispettivamente al futurista milanese e all’androgina pittrice. Oppure di ENEL Contemporanea, rassegna d’arte pubblica, partita nel 2007, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica ai temi energetici e della ecocompatibilità.

[2] Una Giornata di Studio, promossa dalla Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali di Torino, d’intesa con il Ministero per i beni e le attività culturali e la Confindustria, si è occupata del tema “Il finanziamento privato dei Beni culturali: ruolo delle imprese prospettive e percorsi innovativi”, Torino 12 ottobre 2007, atti in corso di pubblicazione.

[3] cfr. E. Varricchio, Educare alla creatività: il modello di un’arte utile, in EDUCARTE, Catalogo della Prima Esposizione di arte per l’infanzia, ed. Levante, Bari, 2001.

[4] cfr. Formazione e arte, Progetto Unicredit Group & l’Arte, Milano, 2006, in www.unicreditgroup.eu

[5] cfr. S. Spallini, La via etica per l’impresa, ed. Cacucci, Bari, 2002.

[6] v. articolo di G. Amadasi, Regno Unito. Dalle aziende 600 milioni di sterline. Un sistema privato efficiente, in Il Sole 24 Ore dell’8/11/2008 pag. 17.

[7] Per quanto riguarda l’Italia, va segnalato come documento di un ente privato il Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1990-2000, realizzato dall’Associazione per l’Economia della Cultura, Roma 17 marzo 2005, reperibile sul sito omonimo.

Nel 2007 è stata pubblicata la terza edizione del Rapporto Economia della Musica in Italia, ASK Università Bocconi, Milano, reperibile nel sito ASK.

[8] tra i vari saggi in argomento, vedi F. Colbert et alia, Marketing delle arti e della cultura, SEPS – Etas,  Milano, 2003.

[9] Si pensi alle esperienze compiute dal premio IC, Impresa e Cultura, promosso dalla Bondardo Comunicazione, giunto alla X edizione, nato per incentivare e premiare le imprese che investono nel settore culturale, che costituisce ormai uno strumento per “posizionare il brand, differenziarsi dai competitor, distinguersi nel mercato globale, valorizzare le persone” (dal depliant della ultima edizione in www.impresacultura.com)

[10] cfr. articolo in Shiny news, luglio 2007, Come cambia il senso della pubblicità, www.shinynews.it/marketing/0307-contextual-advertising.shtml.

[11] cfr. articolo di F. Vergnano, L’Italia sui beni intangibili segue il modello scandinavo, in Sole-24 Ore, 29/10/2007, pag. 20.

[12] cfr. articolo di L. Col uccelli, Chi legge produce di più, in Italia Oggi del 22/02/07, pag. 22.

[13] cfr. articolo di J. Macchi, I manager devono imparare ad amare l’arte e l’innovazione, in Italia Oggi del 22/02/2007, pag. 39.

[14] “ICT è l'acronimo di Information and Communication Technology, (cioè Tecnologia dell'Informazione e della Comunicazione, TIC, in italiano). Con questa sigla si intende l'insieme di studio, progettazione, sviluppo, implementazione, supporto e gestione dei sistemi informativi computerizzati, con particolare attenzione alle applicazioni software ed ai componenti hardware che le ospitano. Il fine ultimo dell'ICT è la manipolazione dei dati tramite conversione, immagazzinamento, protezione, trasmissione e recupero sicuro delle informazioni. I professionisti ICT sono caratterizzati da molteplici capacità di intervento, dall'installazione al design di Architetture telematiche, dalla gestione di basi di dati alla progettazione di servizi integrati per la convergenza di informatica e telefonia nella telematica per i nuovi metodi di trasmissione dell’informazione. L'Information Technology è anche un ambito di studio che si occupa dell'archiviazione, dell'elaborazione, della trasformazione e della rappresentazione delle informazioni con l'aiuto del computer e delle tecnologie a esso connessi” (da www.wikipedia.it).

[15] cfr. articolo di B. P. Pacelli, Beni culturali e ICT connubio sprint, in Italia Oggi, 21/12/2006, pag. 32. Il settore ha fatturato 65 miliardi di Euro nel 2005.

[16] cfr. articolo di M. Pirrelli, Con gli artisti cresce il valore del mattone – Rivalutazioni a doppia cifra, in Sole 24 Ore PLUS del 5/05/2007, pag. 22

[17] cfr. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, Trattato internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali del 1966, Trattato internazionale sui diritti civili e politici del 1966, Raccomandazione  sulla salvaguardia delle culture tradizionali e popolari del 1989, Dichiarazione universale  sulle diversità culturali del 2001, Dichiarazione di Istanbul del 2002. Da ultimo, vedi la Convenzione UNESCO di Parigi 2003 sul patrimonio culturale immateriale, recepita recentemente con legge 167/2007 Convenzione sulla protezione delle diversità culturali, sottoscritta, sempre a Parigi, il 20 ottobre 2005 dai rappresentanti dei Paesi membri dell’UNESCO, ratificata dal nostro Paese con Legge n. 19 del 19 febbraio 2007, con la quale si è cercato di rafforzare i vari anelli che formano la catena creativa, tutelando la diversità culturale intesa come l’insieme delle molteplici espressioni dell’ingegno umano, materiali ed immateriali, esistenti nel tempo e nello spazio, costituenti “patrimonio comune” di tutte le genti.

[18] Sono parole dell’ex Presidente della Confindustria, Antonio D’Amato, pronunciate in occasione del Convegno “Mecenatismo e imprenditorialità”, tenutosi a Roma il 26.11.03 e riportate dal Sole 24 Ore del 27.11.03, pag. 17. La prima formulazione di tale tesi risale in Italia agli anni Settanta-Ottanta, periodo in cui gli opinion makers cominciarono a parlare del patrimonio storico-artistico della penisola in termini di miniera aurea, giacimento, risorsa da sfruttare per la creazione di una economia fondata sul turismo. Sul tema dei cosiddetti “giacimenti culturali”, sui loro effettivi rendimenti e sul loro corretto impiego, vedi A. Cicerchia, I beni culturali come risorse, in op. cit., Milano, 2002., pag. 27 e ss.

[19] Rapporto 2007 – Progetto capitale culturale – cultura motore di sviluppo per Torino, Università di Torino, Facoltà di Economia Aziendale, 2007. Il rapporto è limitato ai flussi di ricchezza generati dalle sole attività museali, da mostre, concerti e rappresentazioni teatrali svoltesi a Torino e in altre 46 comuni limitrofi nel 2006, anno delle Olimpiadi invernali.

[20] Come la zona Bicocca di Milano o il quartiere Flaminio di Roma.

[21] Vengono individuati gli autori della spesa diretta, quantificandone l’impegno e stimandone i fatturati indirettamente collegati alla spesa primaria e quelli indotti dalla spesa dei redditi distribuiti. La valutazione PCA individua una metodologia e conduce ad una stima esatta del valore della spesa culturale, con criteri oggettivi che possono essere di riferimento per omologhe indagini in altri contesti territoriali. La stima del PCA per il Piemonte e Torino, dopo le Olimpiadi invernali del 2006 è di 1,7 miliardi di euro.

[22] Il Rapporto dell’Università di Torino chiarisce che gli investimenti compiuti per le Olimpiadi invernali avrà ricadute anche in avvenire, provocando flussi permanenti derivanti dall’acquisita maggior riconoscibilità nell’offerta turistica del territorio a livello nazionale ed internazionale.

[23] Tale giudizio pesantemente critico è stato espresso dal Direttore del Centro OCSE per imprenditorialità, PMI e sviluppo locale, Sergio Arzeni, in Sole 24 Ore del 21/11/2005.

[24] L’espressione è stata coniata dall’ex ministro per i Beni e le Attività Culturali, Giovanna Melandri, che, nel suo libro pubblicato nel 2006, dal titolo: Cultura, Paesaggio, Turismo. Politiche per un new deal della bellezza, denuncia la mancanza di strumenti adeguati per la promozione del turismo culturale italiano.

[25] DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 26 novembre 2007, n. 233 Regolamento di riorganizzazione del Ministero per i beni e le attivita' culturali, a norma dell'articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296.

[26] Da articolo apparso a pag. 1 de Il Sole 24 Ore del 10 settembre 2006 di G. De Rita.

[27] vedi lettera di M. Montella, Presidente della Commissione ministeriale per la definizione dei livelli minimi uniformi di qualità delle attività di valorizzazione, Cultura in bilico tra pubblico e privato, in Sole 24 Ore del 3 marzo 2008 pag. 17.

[28] Vedi le esperienze del F.A.I. (Fondo per l’Ambiente Italiano) che negli ultimi anni ha saputo innescare un meccanismo virtuoso di collaborazione con le aziende per il restauro di chiese, palazzi e giardini.

[29] La programmazione negoziata per i beni  e le attività culturali Indirizzi normativi e documentazione di riferimento Regione Lombardia, Direzione Generale Culture, Identità e Autonomie della Lombardia,  Milano, Novembre 2006.

[30] vedi art. 38 Legge 21/11/2000 n. 342 e succ. mod. e integr., il quale prevede la deducibilità dal reddito d’impresa delle erogazioni liberali in danaro a favore dello Stato, delle Regioni, degli Enti locali, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute, per la realizzazione di programmi culturali nel settore dei beni culturali e dello spettacolo.

[31] Negli Stati Uniti il 90% dei contributi alla cultura è di provenienza privata ma, contrariamente a quanto si crede, solo il 5% di questi proviene dalle imprese. La gran parte dei fondi è raccolta dai singoli cittadini o da enti benefici no-profit.

In Italia, molto si sta facendo per favorire la contribuzione da parte delle imprese ma assai poco per incentivare il “micromecenatismo”, cioè la partecipazione di singoli cittadini e soggetti no profit alla realizzazione e tutela di operazioni culturali.

[32] Cfr. E. Varricchio, Disposizioni fiscali per incentivare la produzione e la domanda di opere d’arte contemporanea nel territorio della Repubblica Italiana, Proposta di legge, recepita dalla Camera dei Deputati nella seduta del 10.11.1996 e trasmessa per competenza alla VI Commissione. Vedi testo in sito del Centro Studi di Diritto delle Arti, del Turismo e del Paesaggio www.dirittodellearti.it

[33] Il testo della Relazione è stato di recente ripubblicato parzialmente in appendice a R. Cecchi, I beni culturali. Testimonianza materiale di civiltà, Milano, 2006.