Enzo Varricchio
Etica e Avvocatura

Un po’ di etica, per ritrovare l’identità perduta

“Tutelare l’identità dell’Avvocatura”, è il messaggio centrale proferito dal presidente del Consiglio Nazionale Forense, Guido Alpa, nel corso del Convegno nazionale degli Ordini Forensi, tenutosi recentemente a Bari. A suffragio della propria tesi, lo stesso Alpa ha appena pubblicato un saggio dedicato alla “nobiltà” della nostra professione.
Avvocati, dunque, bisognosi di ridarsi credibilità, ricostruendo il proprio ruolo nella società contemporanea.
Per tutelare il nostro patrimonio identitario occorre, preliminarmente, riconoscerci quali portatori di principi, valori e finalità, espressi coerentemente nel divenire storico e radicati nelle diverse comunità antropiche, nonché attualmente sostenibili, sia a livello individuale che di ceto professionale.
Non è sufficiente affermare sumus quia sumus, adducendo a giustificazione della nostra ontoteleologia il mero dato fenomenico (e tautologico) dell’attuale presenza di un sistema normativo il quale esplica normalmente i diritti della difesa dei cittadini attraverso un soggetto a ciò deputato, il “difensore” appunto. Ogni ordinamento è suscettibile di cambiamenti e il fatto stesso che il vocabolo “avvocato” non appaia nel dettato della Costituzione della Repubblica Italiana depone a sfavore della tesi di una presunta indispensabilità in aeternum del ceto forense.
Un recupero di identità serve a garantire un miglior futuro alla nostra categoria e passa attraverso una maggior consapevolezza della sua storia e della sua funzione nel quadro comparato delle diverse professioni liberali, non disgiunta da una rivisitazione dei principi, valori e fini della sua azione, questione quest’ultima prettamente etica; di tal che, appare quanto mai opportuno sollecitare un ritorno del dibattito intorno ai fondamenti etico-filosofici della professione.
Alla ricerca dell’identità smarrita, va salutato positivamente l’ambizioso progetto di elaborare una storia dell’Avvocatura, mentre si impone una rinnovata attenzione per l’assiologia e la comportamentologia professionale, con particolare riferimento all’etica forense e al substrato filosofico sotteso alle norme deontologiche.
La deontologia forense è sì una disciplina giuridica, come asserisce il Danovi – rectius: una forma di etica applicata al mondo giuridico, come la business ethics o la bioetica lo sono rispettivamente al mondo degli affari e ai temi riguardanti gli esseri viventi - ma resta pur sempre fondata su basi etico-filosofiche, dalle quali non si può e non si dovrebbe mai prescindere. L’idea di una giustizia terrena, una delle grandi utopie etiche della storia, è altresì il tema classico della tradizione filosofico-giuridica, la stella polare da cui non è possibile distogliere lo sguardo senza rischiare di smarrire le ragioni fondanti della nostra presenza nell’attuale ordinamento.
La “questione morale” e il conseguente intento moralizzatore non solo possono fungere da contrappeso alla pragmatica aziendalizzatrice e spersonalizzante dell’Unione Europea ma rispondono soprattutto alle pressanti istanze dell’opinione pubblica, sempre meno fiduciosa nelle competenze e nell’affidabilità di un ceto professionale proliferato in modo esorbitante rispetto alle necessità reali, sino a costituire una sorta di ideal tipo negativo, dotato di una serie di qualità utili per porlo ai vertici politico-economici ma, talora, sprovvisto di quelle essenziali, morali e professionali, per svolgere fino in fondo il proprio ruolo storico e giuridico-istituzionale: soccorrere adeguatamente alle aspettative di difesa delle libertà e dei diritti dei singoli e della collettività da qualsivoglia violazione o arbitrio.
L’Avvocatura è istituzionalmente chiamata a garantire il governo della legge, piuttosto che il potere degli uomini.
Vi è il pericolo, invece, che l’avvocato vada progressivamente deumanizzandosi, finendo per reificarsi nella ponde/polverosa coltre cartacea in cui quotidianamente è costretto a vivere, dimenticando che i suoi compiti non si limitano all’erogazione di un diligente servigio al cliente, valutabile economicamente in rapporto di qualità/prezzo; tra essi, rientrano anche l’assistere persone/cittadini in difficoltà e bisognosi di aiuto, l’assolvere al patrocinio gratuito dei non abbienti, assumere il munus publicum di magistrato onorario, il prevenire piuttosto che curare le liti, il redigere modelli contrattuali leciti, equi e ragionevoli, lo svolgere indagini investigative per la ricerca della verità in ossequio al vigente rito penale, e molte altre funzioni solidaristiche e di utilità sociale, che non è possibile trattare in questa sede.
Il problema per un verso è antico, considerato che un’ombra sottile vela un po’ tutta la storia dell’avvocatura, dall’Azzeccagarbugli manzoniano sino allo stereotipo hollywoodiano dell’”avvocato del diavolo”, ed è insito nella peculiare natura della nostra attività professionale, caratterizzata da una stretta contiguità con la vita quotidiana, con le sue miserie e le sue nobiltà.
L’avvocato, si potrebbe iperbolizzare seguendo tale ordine di idee, è un po’ come il prete e il medico, ausilio fastidioso ma necessario, di cui si dubita perché a lui si rivolgono le proprie confessioni e le proprie preci; egli è invero il depositario di una verità spesso alternativa a quella ufficiale, le cui trame si intravvedono di tra le righe di tutta la storia e che spesso sono state dipanate grazie al contributo coraggioso della stessa Avvocatura.
Per altro verso, la crisi di identità e di valori del ceto forense si inserisce nel contesto della società moderna, caratterizzata dalla caduta delle grandi ideologie e del sistema economico fordista e keynesiano, dall’apertura al mercato e dalla popolarizzazione delle attività professionali, dalla facilità di accesso alla tutela giudiziaria, quindi è problema con cause nuove e nuovi effetti, quali le abnormi lungaggini processuali, il sovraffollamento professionale, la subordinazione psicologica alla Magistratura e i forti ammiccamenti al potere politico, l’assenza di unitarietà nella categoria e, quindi le difficoltà da parte di essa ad assurgere al rango di interlocutore paritario nella discussione sulle riforme.
Gli organismi forensi sono pienamente consapevoli della necessità di “una via etica per l’Avvocatura”, capace di ridare un volto equo ed umano agli avvocati, oltre che una dignità ed una statura professionale all’altezza dei compiti affidati; sono conferma di ciò gli aggiornamenti apportati al codice di autodisciplina, la scrupolosa sorveglianza degli Ordini, l’attenzione per il tirocinio e per la formazione continua, il tentativo di riforma delle modalità di accesso alla professione e degli esami di abilitazione, gli studi dottrinari e le pubblicazioni che si susseguono in materia.
La richiesta di maggior visibilità mediatica e di partecipazione alle stanze dei bottoni, invocata a gran voce dagli organismi dell’Avvocatura, più volte in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, è sostanzialmente una richiesta di soggettività politica, per molti versi legittima.
Per partecipare al dibattito sui principi, sui valori e sui fini della democrazia, visti dalla preziosa angolatura dell’organo preposto alla difesa dei diritti nel momento della loro prima proposizione in istanza, occorre, tuttavia, possedere i rudimenti della scienza che da sempre è maestra del comportamento, l’etica, un settore del più ampio spettro della speculazione filosofica, disciplina che dopo anni bui sta oggi registrando un notevole ritorno di interesse, particolarmente nella sua dimensione pubblica e nelle sue forme applicate all’economia, all’ambiente, al diritto.
Un vero cambiamento non potrà esser calato dall’alto, bensì attraverso una riflessione globale e interdisciplinare, metabolizzata e profondamente condivisa.
Appare nondimeno ovvio - ma non sempre sufficientemente chiaro agli organismi nomopoietici dell’avvocatura - che per poter affrontare la “questione morale” dell’ordine forense non sia sufficiente selezionare meglio gli aspiranti, intervenire sui codici deontologici o irrogare sanzioni disciplinari (peraltro riservate ai casi estremi), laddove non si ponga in essere il tentativo di generare una nuova riflessione teorica sul tema della giustizia e delle istituzioni contemporanee preposte alla sua cura, ivi compreso l’ordinamento forense, nell’attuale contesto storico, politico e sociale.
Qualunque principio morale finalizzato a tutelare la “dignità e il decoro professionale”, inserito o modificato nel codice deontologico, rischia di restare disatteso, eluso, oppure malvolentieri rispettato per il solo timore della sanzione, se si percepisce calato dall’alto e non viene discusso, partecipato e condiviso ai vari livelli della carriera professionale.
Questo processo di “metabolizzazione etica” presuppone una conoscenza di massima degli assetti epistemologici fondamentali della speculazione filosofica in tutti gli iscritti agli ordini forensi.
Urge l’approccio a problematiche nuove, quali la fluidità dei mercati e l’introduzione delle nuove tecnologie, l’ecologia, le soglie dei diritti, la bioetica, la teoria delle diversità, etc.
Tutti argomenti che richiedono una preparazione non solo solida ma plurilaterale, interdisciplinare, omogenea ed armonica agli standard europei e internazionali.
Mentre gli economisti, obtorto collo per via degli scandali Enron, Parmalat, etc., fanno a gara nel discettare di banche etiche, responsabilità e bilanci sociali, finanza dal volto umano, la matrice umanistica e filosofica che è sottesa alla speculazione giuridica finisce per essere alquanto sottovalutata dai giurisperiti che frequentano i tribunali.
Basti considerare due fatti: nella grande maggioranza delle facoltà universitarie italiane di Giurisprudenza non sono istituiti insegnamenti di etica e deontologia, restando quello di filosofia del diritto l’unico corso di lezioni riconducibile al tema; né esiste alcuna scuola forense che dedichi spazio alle discipline etico-filosofiche applicate al diritto.
Eppure, sussiste una prova orale dedicata alla deontologia forense nell’ambito degli esami di abilitazione all’esercizio della professione, anche se non è chiaro da chi e come dovrebbe essere impartiti i rudimenti di quest’antica scienza, seppur precipitati tecnicamente negli scarni articoli del codice deontologico.
Sembrerebbe, così, che il momento topico della formazione etica dell’avvocato sia quello del tirocinio presso lo studio di un collega, il quale dovrebbe farsi carico di fornire spiegazioni ed esempi pragmatici a coloro che prima che praticanti sono da considerarsi allievi di una filosofia professionale, che è poi l’elemento caratterizzante di uno studio legale che si rispetti.
Ciò avviene sempre e, soprattutto, chi forma il formatore?
In tal senso, emerge la carenza della preparazione e formazione storico-filosofica dell’avvocato, che pure dovrebbe essere preminente in una professione che vanta una nobile tradizione umanistica, illustrata, a partire da Marco Tullio Cicerone, da personalità del rango di Goldoni, Filangieri, Campigli, Calamandrei, Dell’Andro, che giammai dovrebbe secondare la tendenza a ridursi mera disciplina tecnicistica, impastoiata tra clientele e codicilli.
La verità, per quanto scomoda da ammettere, è che per molti Colleghi la deontologia forense rimane una sorta di precettistica professionale, priva di ogni collegamento con i criteri che presiedono alle scelte morali ad essa sottostanti.
E’, dunque, necessario rivedere la nostra preparazione dando maggior spazio alle questioni etiche, onde poter enucleare principi e fissare valori e obiettivi chiari, univoci, concludenti, condivisibili a qualunque latitudine.
Chi conosce la teofania egizia sa bene che l’avvocatura ha sempre avuto una buona ragione per esistere: il primo avvocato mitico fu il dio Thoth, il quale difese Osiride nella psicostasia, il processo degli dei di Eliopoli ingiustamente intentatogli dal suo nemico implacabile, il fratello Seth. Osiride fu assolto grazie a una brillante arringa del suo difensore, supportata da una memoria scritta con lo stilo sulla superficie di una tavoletta, sorta di comparsa conclusionale ante litteram.
(Il presente articolo costituisce la versione rivista e aggiornata di “Il ritorno di Astrea”, in Rassegna Forense N. 2/2004, Giuffré Editore)

 

 

 

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