Enzo Varricchio
Pubblicato in Rassegna Forense, Rivista Trimestrale del Consiglio Nazionale Forense n. 2/ 2004 – Edizioni Giuffré

Il ritorno di Astrea

Excursus archeomitologico sui rapporti tra etica e diritto

 

SOMMARIO: 1. Avvocatura: la questione morale. 2. Diritto ed etica nel mondo antico. 3. Il mito di Astrea. 4. Le altre divinità che personificavano la identificazione tra le norme giuridiche e i principi morali. 5. Il processo degli dei e la psicostasia: il dio Thoth, primo avvocato mitico. 6. La rottura dell’armonia originaria e il suo lento processo di ricomposizione.

 

Avvocatura: la questione morale.

L’Avvocatura italiana è attualmente impegnata in un importante processo di revisione e valorizzazione dei suoi principi deontologici, un dibattito presente anche nella letteratura e nella prassi forense straniera.
Si potrebbe parlare di un vero e proprio ritorno del dibattito intorno ai fondamenti etici della professione.
Ne fanno testo gli aggiornamenti apportati al codice di autodisciplina da parte del Consiglio Nazionale Forense, l’attenzione per il tirocinio e per la formazione continua, le proposte di riforma delle modalità di accesso alla professione e degli esami di abilitazione, gli studi dottrinari che si susseguono in materia.
La “questione morale” e il conseguente intento moralizzatore non solo fungono da contrappeso alla mentalità aziendalizzatrice e spersonalizzante dell’Unione Europea ma rispondono soprattutto alle istanze dell’opinione pubblica, sempre meno fiduciosa nelle competenze e nella affidabilità di un ceto professionale proliferato in modo esorbitante rispetto alle necessità reali, sino a costituire una sorta di ideal tipo negativo, dotato di una serie di qualità utili per porlo ai vertici politico-economici ma, talora, sprovvisto di quelle essenziali, morali e professionali, per svolgere fino in fondo il proprio ruolo storico e giuridico-istituzionale: soccorrere adeguatamente alle aspettative di difesa delle libertà e dei diritti dei singoli e della collettività da qualsivoglia violazione o arbitrio.
Tuttavia, se di vero cambiamento dovrà parlarsi, esso non potrà esser calato dall’alto bensì attraverso una riflessione globale e interdisciplinare, metabolizzata e condivisa a tutti i livelli dell’Avvocatura.
Urgono strumenti per l’approccio a problematiche nuove, quali l’introduzione delle tecnologie avanzate, le soglie dei diritti, la bioetica, la teoria delle diversità, etc.
Tutti argomenti che richiedono una preparazione non solo solida ma plurilaterale, interdisciplinare, omogenea agli standard esteri.
Credo che in questa direzione vada letta anche la linea editoriale assunta dalla rivista “Rassegna Forense”, con contributi che spaziano da questioni tecniche a problemi teoretici e comparatistici, con particolare attenzione per i profili deontologici dell’attività professionale.
Mentre va concretizzandosi l’ambizioso progetto di elaborare una storia dell’Avvocatura, un buon punto di partenza lungo la strada di una nuova attenzione per la comportamentologia professionale può essere costituito dall’analisi dell’evoluzione storica e culturale dei rapporti tra etica e diritto.
La deontologia professionale, infatti, è notoriamente una disciplina di confine tra queste due scienze, rectius una forma di etica applicata al mondo giuridico, come la business ethics o la bioetica lo sono al mondo degli affari e ai temi riguardanti gli esseri viventi; inoltre, l’idea di una giustizia terrena, una delle grandi utopie etiche della storia, è pure il tema classico della tradizione filosofico-giuridica.
In questo scritto si è partiti dall’origine, dalla storia antica di un’idea incarnatasi nel mito di una dea che impersonava la proficua compenetrazione tra le norme giuridiche e i principi etici di giustizia, l’identificazione tra norma formale e tutela sostanziale, con l’utopico auspicio che detta coincidenza possa ripetersi ancora nei futuri ordinamenti giuridici.

Diritto ed etica nel mondo antico.

Vi fu un tempo, forse solo mitico, sorta di Age d’Or, in cui la legge e la giustizia, il diritto e la morale, nomoV e dikaiosunh , formavano una perfetta unità e coincidenza, un tempo in cui le norme che regolavano i rapporti tra gli uomini erano una cosa sola con i principi etici del vero, del buono e del giusto.
Nel mondo antico i principi morali erano legge e la legge era sempre moralmente fondata, le forme primitive di stato si reggevano su un’assiologia di pochi valori sommamente condivisi e praticati: fedeltà ai costumi della comunità, mutuo soccorso nel pericolo e contro il comune nemico, rispetto dell’anzianità, etc.
Il vocabolo greco antico equivalente all’italiano “norma”, cioè nomoV, nella sua prima accezione significava consuetudine, o meglio, “ciò che è attribuito a ciascuno secondo l’uso”, che corrisponde semanticamente al suum cuique tribuere dei latini, concetto antico di carattere eminentemente morale, secondo cui il diritto consiste nell’attribuzione a ognuno di ciò che tocca in virtù del merito ovvero del bisogno, cioè in base a un criterio di equità di natura prettamente morale.
Infatti, per Platone il diritto e l’etica sono accostati in una sorta di endiadi.
Per il giurista romano Ulpiano, il concetto morale di “virtù” e quello giuridico di “giustizia” coincidono nella nota definizione: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi” : la virtù, (alias la giustizia) è la volontà immutabile di rendere a ciascuno il proprio diritto.
Sfogliando le regole ulpianee, proseguono le omologie tra diritto e morale: “I precetti del diritto sono i seguenti: vivere onestamente, non recare danno agli altri, dare a ciascuno il suo”.
E’ ancora illuminante sul tema questa definizione: “la giurisprudenza è la conoscenza delle cose divine e umane, la scienza del giusto e dell’ingiusto”.
Di certo, tale coincidenza delle regole della coscienza individuale e collettiva con le norme giuridico-sociali era determinata soprattutto dal fatto che nelle antiche civiltà era il sacro a dettare le norme al profano e il mondo degli dei informava di sé quello degli uomini, condizionando non solo le loro anime ma, di conseguenza, le loro norme e istituzioni.
I popoli del passato conoscevano una piena compenetrazione dei concetti di sacro e profano, di religione, di etica e di legislazione; il capo, faraone o sovrano era quasi sempre anche sommo sacerdote o pontifex maximum, comunque autorevole per diretta investitura divina.
Egli amministrava il diritto nel nome del dio, il quale non poteva che essere assolutamente, universalmente e oggettivamente vero, buono e giusto, come di incontrovertibile esattezza e saggezza erano da considerarsi i valori e le regole comportamentali da lui ispirati.
I Romani, maestri universali dello iure, avevano compreso tale dinamica e per loro il sacerdozio ebbe un’organizzazione statale, ed anche il culto in generale fu un’istituzione eminentemente etico-politica.
E’ il mito classico che rafforza tali indicazioni, attraverso una personificazione teogonica della originaria omologia tra legge e morale.

Il mito di Astrea

La giustizia, ovverosia una delle aspirazioni etiche per eccellenza, nonché il fine precipuo del diritto, era una divinità venerata sia in Grecia che a Roma.
Al Kunsthistorisches Museum di Vienna è possibile ammirare una bella tela del pittore Salvator Rosa uno dei maestri del barocco di scuola napoletana, intitolata Il ritorno di Astrea.
Raffigura la vergine Astrea, dea greco-latina della giustizia, che appare in cielo accompagnata da un leone e porge ai contadini che la riveriscono intimoriti la spada e la bilancia, suoi attributi consueti che simboleggiano l’autorità imperativa (il leone), e all’occorrenza coercitiva (la spada), della legge per realizzare la giustizia (la libbra).
Il soggetto dell’opera, che ogni giorno osserviamo riprodotto nelle statue maestose che accolgono gli utenti dinanzi alle porte dei nostri tribunali, è tratto da Virgilio il quale, nelle Georgiche (IV Egloga), narra che Astrea, figlia di Zeus e della titana Temi, durante l’età dell’oro - epoca felice in cui si viveva in libera anarchia e reciproco rispetto, in cui tutti i diritti e le aspirazioni dell’uomo potevano realizzarsi - abitò sulla terra insieme agli altri dei.
Secondo la Teogonia di Esiodo, quando gli uomini cominciarono a macchiarsi dei primi delitti e l’aurea armonia fu interrotta, Astrea abbandonò i centri abitati, rifugiandosi presso i contadini, equi e pacifici. Col tempo, anche questi ultimi presero a trasgredire la legge, cosìcché la Giustizia, ultima tra gli dei, lasciò la terra corrotta per tornare in cielo e trasformarsi nella costellazione della Vergine, come l’etimologia del suo nome chiaramente ricorda.
La tela di Salvator Rosa raffigura la profezia del ritorno della dea in terra in un lontano futuro, che altro non è se non la nuova età dell’oro, di cui parlano i miti di quasi tutte le popolazioni antiche.
O muqoV dhloi: esiste una naturale tendenza delle norme morali e di quelle giuridiche ad alternare periodi di coincidenza ad altri di divergenza nel corso del tempo storico.

Le altre divinità che personificavano la identificazione tra le norme giuridiche e i principi morali.

Astrea aveva degli alter ego o eteronimi, Temi e Diche, anch’esse considerate patrone della giustizia.
Pure queste due divinità ribadivano simbolicamente la stretta compenetrazione tra religione, etica e diritto.
QemiV è un sostantivo, in origine neutro e solo in seguito divenuto femminile, un solo termine con cui i Greci solevano designare ciò che è lecito per volontà divina riconosciuta oggettivamente dagli uomini in una pluralità di concetti, oggi irreversibilmente separati e distinti: legge, giustizia, equità, causa, sentenza, pena, autorità legittima di un capo, diritto, istituto, regola, uso, costume.
Temi, madre di Astrea, raffigurata con l’elmo, lo scudo e la lancia, è un’antichissima dea del ciclo titanico e fu, in ordine di tempo, la seconda moglie di Zeus.
Dalla unione tra il signore degli dei e la Giustizia nacquero anche le Esperidi, le Parche e le Ore, tra le quali la stessa Diche, che in qualche modo rappresenta un antecedente, un eteronimo ovvero un doppio di Astrea.
Il mito assai spesso ci presenta alcune figure sovrapposte di cui è interessante notare i margini di coincidenza e quelli differenziali, per poi seguirne l’evoluzione concettuale nel tempo.
Temi esprimeva il concetto del diritto naturale, quale è consacrato dagli usi e dalle consuetudini, e passò poi a designare la legge e l’ordine stabiliti da Zeus nel mondo, sia nella natura sia nella vita umana.
“Temi fu dunque una divinità a carattere essenzialmente morale”.
Anche la parola dikh da cui proviene, ovvero da cui si origina, l’altra figura di divinità greco-romana che incarnava la Giustizia, la divinità che proteggeva e sorvegliava le attività dei tribunali, assume un senso ambivalente tra “costume” e “diritto”, corrispondendo nella forma avverbiale al latino more.
Diche, severa punitrice delle colpe, era una delle tre Ore, divinità che custodivano le porte del cielo e si identificavano con le stagioni.
Le sue sorelle erano Irene (la pace) e Eunomia (il buon ordine), entrambe esprimenti caratteri coessenziali allo stato di giustizia.
A differenza di Astrea, che impersonava la connotazione assolutamente positiva di una rettitudine perfetta, quindi non-umana, volando tra le nubi in Olimpo, Dike designò anche il significato opposto, in quanto altra faccia della giustizia: la vendetta, la brama insana di una giustizia diretta, immediata, punitiva e strettamente personale, difetto comune ad uomini e dei; perciò fu posta a “tener compagnia agli dei di sotterra”.
La simbologia del remoto passato era sempre reversibile, double face come una moneta, dal cui conio deriva infatti la stessa parola “simbolo”.
Saggezza degli antichi! Una giustizia non temperata dal senso di umanità e dal controllo dello stato sfocia nella sua antitesi e negazione.
Infatti, ben presto l’armonia primigenia narrata dal mito, con tutta probabilità mai realizzatasi storicamente, venne rotta: già nell’Antigone sofoclea traspare la scissione tra le norme della tradizione dei padri e quelle dell’organizzazione sociale e dei legislatori dello stato.
L’eroina tragica, rosa da un angosciante dilemma etico, alla fine fa prevalere la propria spinta morale e disubbidisce alla proibizione giusnormativa del sovrano Creonte, seppellendo il fratello Polinice.
Nel caso di Antigone, non sono le ragioni del cuore bensì le ragioni della giustizia a prevalere su quelle di stato.

Il processo degli dei e la psicostasia: il dio Thoth, primo avvocato mitico.

La corrispondenza tra norma giuridica e norma etico-religiosa non trova soluzioni di continuità anche nelle altre civiltà del passato, così come ricordano le culture della mezzaluna fertile, lungo le rive dei grandi fiumi, il Tigri, l’Eufrate, il Nilo.
“Le istituzioni civili dell’antico Egitto ebbero tutte delle basi altamente morali e per questo furono imitate, copiate, dalle civiltà meno antiche. Il diritto egiziano ebbe grandissima influenza sul diritto greco-romano, da cui derivò quello dei popoli moderni”.
Nella stele che contiene inciso il famosissimo codice del sovrano babilonese Hammurabi - il primo monumento legislativo dell’umanità, risalente al XVIII secolo a.C. - quest’ultimo è raffigurato mentre riceve direttamente dalle mani del dio solare Shamash il testo delle leggi, allo stesso modo in cui Mosé ricevette sul monte Sinai i Dieci Comandamenti da Jahveh.
Perfettamente aderente alla predetta corrispondenza tra etica e diritto è il rito del giudizio, in quanto momento di affermazione del sentimento collettivo di giustizia, che costituisce il momento cruciale dell’escatologismo religioso sia antico che attuale.
Come ci ha insegnato Ludwig Feuerbach, l’uomo, non riuscendo da solo a risolvere le ingiustizie, proietta in sede divina le proprie aspirazioni morali, alienandole ad un essere supremo al cui giudizio, extrema ratio, si rimette.
E’ dimostrato dagli studi archeologici che anche le tribù primitive praticavano il cerimoniale del processo, affidato a giudici ad hoc, che decidevano le controversie tra gli appartenenti alla tribù sulla base di norme consuetudinarie di natura etica, tramandate di generazione in generazione.
La psicostasia, cioè il giudizio divino espresso attraverso la “pesatura delle anime”, con cui l’anima del morto viene ponderata su una bilancia per verificarne la meritevolezza ad ascendere alla vita eterna, ricorre in varie religioni, sin dai Gatha, nella religione mazdea-mitraica, in quella ebraica con la letteratura apocalittica, in quella islamica, nonché nell’iconografia cristiana, in cui è l’arcangelo Michele a fungere da giudice, mentre Satana cerca di tirar giù il piatto delle colpe per accaparrarsi nuove vittime per gli infernali supplizi.
Il primo avvocato che la storia ricordi fu il dio egizio Thoth, il quale difese Osiride dal processo intentatogli dinanzi al tribunale degli dei di Eliopoli dal suo nemico implacabile, il fratello Seth, come narra il Libro dei Morti.
Dopo questa controversia primigenia, che vide la vittoria di Osiride e la sua temporanea resurrezione dal regno delle ombre, quest’ultimo divenne il giudice di tutti gli uomini nella vita oltremondana.
Il processo che ogni anima doveva subire post mortem si articola in una serie di fasi, una delle quali è costituita da una professione d’innocenza che contiene allo stesso tempo principi religiosi, morali e giuridici.
La psicostasia avviene ponendo in uno dei piatti della bilancia una piuma, simbolo della Verità, nell’altro il cuore del defunto, a favore del quale il dio Thoth ha appena proferito una memoria scritta (una sorta di comparsa conclusionale?!), incisa con lo stilo su una tavoletta.
Il “sistema giudiziario” religioso dell’antico Egitto prevedeva una graduazione di premi e sanzioni dipendenti dall’esito dell’anzidescritto processo, secondo uno schema ripreso nella tradizione da Greci e Romani, oltre che in quasi tutte le religioni posteriori, ivi compresa la cristiana, di cui la più nota esemplificazione è nel contrappasso dell’Alighieri, con la sanzione dell’eterna reclusione nei gironi della dannazione oppure il benefizio dell’ascesa nei cieli della perfezione.

La rottura dell’armonia originaria e il suo lento processo di ricomposizione.

Il passaggio dall’età dell’oro a quella del bronzo, sino all’età del ferro, caratterizzato dai due autoesili di Astrea, ci segnala il progressivo allontanamento della sfera etico-religiosa da quella giuridica.
La dea fugge dalla terra quando la norma dettata dall’autorità alla comunità smette di rispecchiare il senso di giustizia di quest’ultima.
Ritornerà nel momento in cui l’umanità sarà stata capace di ripristinare una societas più vera ed equa, basando ogni comando ed ogni sanzione su una ragione morale da tutti condivisa.
Questo mito può essere utilizzato come paradigma del processo di scissione e ricomposizione dei due termini di giustizia della legge e di legge della giustizia, che si ripresenta a fasi alterne nella storia umana.
Tale processo di separazione trovò compimento forse solo nell’epoca del Macchiavelli ma furono già i Romani, con la redazione della Legge delle XII Tavole (451 a.C.), scolpita nel bronzo, a interrompere la lunga tradizione degli dei legislatori e a trasferire il “potere normativo” nelle mani degli uomini, grazie al passaggio dall’oralità dei mores maiorum alla scrittura delle norme giuridiche. La Legge delle XII Tavole è la testimonianza di una vera rivoluzione concettuale: il principio dell’antica morale secondo cui si ammettevano le disparità di valore tra gli uomini, viene sostituito con quello giuridico di eguaglianza formale dei cives dinanzi alla legge.
L’attuale tentativo di riunione del sistema di amministrazione della giustizia e del mondo forense con l’ideale etico-deontologico di giustizia terrena, che pure lo ha generato e ne giustifica tuttora l’esistenza, è una manifestazione peculiare dell’inversione di questo processo.
La saggezza insita nella mitofania di Astrea, particolarmente il suo profetizzato ritorno sulla terra per una nuova età dell’oro, si presta a diverse letture ma per noi anzitutto come auspicio di un sempre maggiore umanesimo della cultura giuridica, in un clima di nuovo fervore di interesse della Avvocatura per i problemi storico-sociali ed etico-filosofici, dei quali la sua evoluzione professionale deve necessariamente riappropriarsi se intende assolvere appieno alla propria funzione negli scenari epocali a venire.

 

 

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